Posts Tagged ‘elezioni regionali

29
Mar
10

un grido di dolore

L’unico dato certo del giorno è, al momento, la forte astensione, senza precedenti nella storia delle elezioni repubblicane (i referendum sono un’altra cosa). I dati dicono che nelle 9 regioni monitorate direttamente dal Viminale ha votato il 64,22% degli aventi diritto, circa l’8% in meno rispetto alle precedenti regionali. Il Corriere ha anche lanciato una raccolta di opinioni sulle ragioni dell’astensione, ma  a parte molta comprensibile delusione per tutto ciò che sappiamo non se ne ricava un granché.

Che cosa significa questo dato assolutamente inaudito? Bisogna dirlo ora perché dopo,  quando si vedrà chi ha vinto (e hanno vinto tutti, naturalmente), non se ne parlerà più: intascati i (pochi) voti, all’eletto non serve nient’altro per invocare la legittimazione popolare, non importa se solo del 35% dei cittadini (se infatti hanno votato il 64% degli aventi diritto, chi vince con, poniamo, il 55% dei voti è stato votato dal 35% degli aventi diritto). Già stasera nelle dirette televisive gli astenuti scompariranno presto dalla scena.

Al di là della reazione agli scandali, alle ruberie, all’uso sistematico delle risorse pubbliche per fini privati, alla guerra attraverso le procure, al delirio mediatico, alla pochezza dei progetti politici (il capolavoro di queste elezioni è che i politici non hanno nemmeno avuto bisogno di un programma: geniale!), al bassissimo livello umano di molti candidati, agli insulti e così via (va bene, lo ammetto: ce n’è più che abbastanza per suggerire un’astensione anche nel più convinto attivista politico…), oltre a questo, dicevo, c’è soprattutto, almeno in chi si ferma a osservare da una certa distanza, la netta percezione di un fenomeno ormai documentato da tempo: la congerie di partiti, movimenti, consorterie e individui che circola intorno a ciò che si chiama politica è, in Italia, un sistema totalmente autoreferenziale e privo di qualunque contatto con la reale vita civile. La prima documentazione sistematica del livello raggiunto in Italia da questo fenomeno, lo ricordo perché ce ne siamo troppo rapidamente dimenticati, è il libro (ormai superato dalla realtà) di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, La casta (Rizzoli, Milano 2007, nuova edizione 2008). Se ci si prendeva la briga di leggerne qualche capitolo dopo averlo comprato (lo hanno comprato in tanti), si aveva la dimostrazione precisa, nei numeri, nei fatti, nelle cause e negli effetti, dell’autoreferenzialità della cosiddetta politica (o meglio, come dicono Rizzo e Stella, di una sua caricatura).

Non ripercorro nessuno di quei FATTI, la cui narrazione irritò tanto la destra quanto la sinistra (lo si è rubricato come antipolitica e lo si è sostanzialmente censurato). Ne riassumo solo il senso: l’attività politica, in questo Paese, consiste in gran parte (o forse esclusivamente) nel creare e alimentare un sistema di clientele personali che beneficiano direttamente delle attività del politico di turno. Quest’ultimo mira a consolidare la propria posizione non anche, ma esclusivamente attraverso il conferimento di qualche privilegio o favore a persone specifiche: non dico a categorie o classi sociali o gruppi di riferimento, piuttosto singoli individui o piccoli gruppi di persone che hanno in comune solo il fatto di ricevere quel diretto beneficio. Sarà un effetto della caduta delle ideologie, ma laddove quest’ultime creavano la legittimazione politica attraverso il rapporto fra classi sociali e partiti, il politico italiano odierno non ha altra offerta politica reale che il favore personale, immediato, slegato da appartenenze ideologiche, sociali o culturali ma legato, legatissimo al coinvolgimento dell’elettore nel sistema dei benefici di cui godono i politici e quanti vi gravitano attorno.

Così, lo scopo del politico medio è allargare la cerchia dei suoi beneficati, senza la mediazione del partito o dell’ideologia. Questo genera un meccanismo diabolico: il politico ha bisogno di privilegi e vantaggi da distribuire a pioggia ai suoi “soci”; questi sono certamente meno della totalità dei cittadini, anche quando si sommassero tutti i politici in gioco. Per elargire benefici però bisogna avere risorse. Il sistema politico deve quindi drenare sempre più risorse dai cittadini, per redistribuirle individualmente a quelli che hanno promesso sostegno elettorale o di altra natura. Si tratta di un gruppo un po’ più ristretto di cittadini, che però il sistema politico tende ad allargare indefinitamente. In questo modo, attraverso il favore diretto, il sistema politico alimenta esclusivamente se stesso: ha bisogno di risorse per aumentare le elargizioni personali e punta a coinvolgere nel sistema di scambio quanti più elettori è possibile.

Ora, però, qui valgono due osservazioni: la prima è che non tutti hanno accesso a un qualche politico in posizione di elargire regalie di qualche tipo; quindi si tratta di un meccanismo di redistribuzione intrinsecamente ingiusto o quanto meno arbitrario. Ma questo aspetto è però, in proporzioni un po’ più ridotte, normale nella politica e, anche lontano dagli ideali, è un dato di fatto comune. Certo non è edificante, ma non è tragico. La seconda osservazione, che invece segnala un’anomalia fortemente italiana, è che nella vita civile non ci sono solo gli interessi privati: vi sono “beni comuni” che rappresentano il tessuto della vita civile e che riguardano tutti gli ambiti: l’educazione, l’economia, la cultura, la produzione, la giustizia, la difesa e così via. Qui vi è  qualcosa che la tradizione satirica romana (Orazio e Giovenale, ma anche la tradizione stoica – Cicerone, Seneca e Marco Aurelio – e di qui fin nel pieno dell’età moderna, per esempio in Shaftesbury) aveva compreso molto bene: quando manca il sensus communis, vale a dire il senso di ciò che è comune, pubblico, l’interesse per il bene della buona convivenza associata, ognuno è legittimato a ricercare esclusivamente il proprio particulare e così la res publica va in rovina.

Ora, il dato preoccupante che l’astensione segnala, a mio modesto parere, non è la “disaffezione” e nemmeno soltanto la “delusione”. Si tratta di qualcosa di peggio: poiché il gioco delle consorterie private della politica italiana è ormai così scoperto da essere accecante, è evidente che il cittadino non ha più alcuna fiducia nell’idea che il politico abbia qualche sensibilità per il bene comune (cioè che abbia alcun sensus communis; i politici si rivelano uomini privi di senso comune). Se lo vota è solo perché ha ricevuto favori diretti o spera di averne. E ci siamo quasi: se la percentuale dei votanti continua a scendere, arriveremo al pareggio fra chi vota e chi è direttamente o indirettamente coinvolto nel sistema che alimenta se stesso. Il 35% dei cittadini riceve un beneficio diretto dall’eletto di turno, gli altri sperano e i beni comuni non esistono.

Ecco, la percezione che questa sia la condizione normale della politica italiana genera molto più che una “disaffezione” o un disincanto. Eppure non genera più nemmeno una ribellione o una protesta. Genera astensione, che è un modo perdente e disperato di rapportarsi alla politica, è un grido di dolore che sa di non essere ascoltato, una sconfitta di fronte a tutti i vincitori (con il 35%). Sconfortante, ma se le cose non cambiano almeno un po’ non si vede proprio come uscirne.




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